lunedì 28 dicembre 2009

Ma che Gioia quel commercio

'Ndranghetisti e cinesi insieme. Per fare che? Affari. Sporchi. Con la droga? Macché, troppo pericoloso. Meglio contrabbandare qualcosa che non bisogna sempre nascondere e che passa sotto gli occhi senza destare sospetti. Cosa? Scarpe, vestiti, profumi. Taroccati. Roba da ragazzini? No, da professionisti. Come quelli (27) che i carabinieri di Reggio Calabria hanno beccato a trafficare nel porto di Gioia Tauro. Qui l'alleanza fra le famiglie Molé, Piromalli e cinesi fruttava molto molto denaro. Che poi veniva ripulito acquistando immobili nel Lazio. E infatti a Roma sono stati sequestrati 50 milioni di euro: una parte dei proventi ottenuti con il traffico di container pieni di merce contraffatta arrivata dall'estremo Oriente in Calabria.

Al porto di Gioia Tauro, grazie all'aiuto di due funzionari delle dogane, i container "sorvolavano" i controlli e invadevano la penisola. A fare da intermediari tra la cosca e gli spedizionieri in oriente, ci sarebbe stata una coppia di cinesi, Wanli Lyn e Rong Rong Dai, che dal loro negozio di oggettistica di piazza Vittorio a Roma organizzavano le spedizioni e già stavano pensando di spostare da Napoli a Gioia Tauro tutto il loro giro d'affari.

In Italia, l'organizzazione del traffico, secondo l'accusa, era affidata a Cosimo Virgiglio, amministratore di una società di import-export e considerato il principale referente imprenditoriale della cosca dei Molé. Era lui a favorire l'importazione fraudolenta, eludendo il sistema di controllo automatico dell'Agenzia delle dogane e, con il meccanismo della sottofatturazione, ad evadere quote rilevanti di dazi e Iva.

Virgiglio è stato arrestato dai carabinieri del Ros mentre si trovava a ''Villa Vecchia'', un lussuoso complesso alberghiero con due avviati ristoranti a Monte Porzio Catone, a una trentina di chilometri da Roma, nel quale sarebbero finiti parte dei proventi del traffico di merce contraffatta. L'albergo è stato sequestrato insieme ai capitali di tre società riconducibili a Virgiglio. Il complesso alberghiero era stato acquisito dalle cosche con ripetute intimidazioni nei confronti dei precedenti gestori e del proprietario, costretti a cedere l'attivita' per compensare i debiti maturati con il gruppo criminale.

giovedì 29 ottobre 2009

Schiave cinesi d'Africa

E' dedicato alla tratta delle giovani cinesi in Ghana, Nigeria e Togo il secondo premio del Gran Premio Natali 2009 - Regione Africa. Se l'è aggiudicato Anas Aremeyaw per il reportage "Undercover Inside The Chinese Sex Mafia", pubblicato su The New Crusading Guide. Nella sua inchiesta, la reporter racconta le violazioni dei diritti umani perpetrate dalla mafia cinese in Africa occidentale. La giornalista, dopo essersi infiltrata nell'organizzazione criminale fingendosi una barista per più di sei mesi, ha messo a nudo un impero gestito da faccendieri senza scrupoli. Che vendono ragazzine cinesi per 6000 dollari, promettendo loro lavori onesti per poi "trasformarle in merce da esporre come carne nelle vetrine delle macellerie". Il tutto, seguendo le mosse di King James, il boss che veste Gucci, indossa Rolex d'oro massiccio e pasteggia con bicchieri di Champagne che le sue schiave non osano lasciare mai vuoti.

Leggi l'intero reportage in Inglese o in Francese

domenica 20 settembre 2009

Gang di chinatown, 17 arresti a Milano

Estorsione, sfruttamento della prostituzione, gioco d’azzardo, due tentati omicidi e un ferimento. Tra maggio e agosto la gang di diciassette giovani cinesi s’è data un gran daffare per gestire i suoi affari nella chinatown milanese. Adesso sono tutti nelle mani dei carabinieri e i commercianti del quartiere Sarpi per un po’ possono stare tranquilli.

Le vittime, infatti, erano proprio loro: ristoratori e baristi cinesi, obbligati a pagare il pizzo a loro connazionali e costretti a rifornirsi dai grossisti che i gangster gli imponevano. La banda utilizzava i consueti metodi mafiosi: intimidazione e violenza. E per essere persuasivi c’era tutto un corredo di mannaie, daghe e mazze da baseball.

La gang era organizzata in modo verticistico con un capo, alcuni luogotenenti e una manovalanza composta dai membri più giovani. I carabinieri hanno anche scoperto un giro di squillo che operavano in appartamenti in affitto e una bisca clandestina. Originale (quanto crudele) il sistema di alloggi che la gang mettevano in affitto: quattro phone-center dotati di poltrone o semplici sedie che dopo la chiusura delle serrande venivano girate a due a due e trasformate in letti per pernottamenti a basso costo.

mercoledì 29 luglio 2009

Giocare al Padrino è fuorilegge

Vietato il Padrino online. La Cina ha messo al bando i siti web su cui compaiono giochi con gang mafiose che appaiono in modo "accattivante". E il ministero della Cultura ha precisato che tali giochi "promuovono l'oscenità, il gioco d'azzardo o la violenza" e "minano la moralità e la cultura tradizionale cinese". Secondo il governo di Pechino, i videogame con gli emuli digitali di Marlon Brando "incoraggiano la gente a imbrogliare, rapinare e uccidere, e a glorificare le vite dei gangster", dando un "cattivo esempio ai giovani". L'ordinanza ministeriale prevede maggiori controlli e minaccia "di punire duramente quei siti che continuino a gestire tali giochi".

Nei primi anni seguiti all'avvento al potere dei comunisti, il governo cinese aveva quasi totalmente distrutto le gang mafiose, che però sono tornate alla ribalta negli ultimi decenni, mentre si affievolivano i controlli economici e sociali. Nonostante il coinvolgimento della mafia in attività come il traffico di droga o di esseri umani, film e telefilm girati a Taiwan e Hong Kong e che trattano le gesta delle Triadi sono molto popolari nel paese asiatico. Per il settore dei giochi online in Cina si prevede una crescita quest'anno compresa tra il 30% e il 50%, con ricavi pari ad almeno 3 miliardi e mezzo di dollari. La Cina conta circa 200 milioni di giocatori online, e oltre 300 milioni di utenti internet, il numero più alto al mondo.

lunedì 29 giugno 2009

Spicy Qin e Hammerhead alla sbarra
Il padrino del Guangdong a processo

C’erano lunghe file il 16 giugno davanti al tribunale di Yangjiang, nel Guangdong, sud della Cina. Centinaia di persone (foto Associated Press) in attesa di “Hammerhead” e “Spicy Qin”. Ma la loro curiosità non è stata premiata. I due pezzi da novanta sono arrivati con un autobus scuro della polizia. Scortati da decine di agenti. E, per evitare ogni pubblicità, i loro volti erano coperti da maschere da sci. Le autorità di Pechino non hanno voluto regalare alcuna notorietà a Xu Jianqiang (Hammerhead) e Lin Guoqin (Spicy Qin).

Nessuna pubblicità per i due boss, portati alla sbarra per aver costruito attraverso l’illegalità un impero che spazia dai casinò all’industria del cemento, dai trasporti agli allevamenti di polli. E poiché l’accusa è di aver costituito una “società nera”, ovvero una cosca mafiosa, i giudici cinesi potrebbero condannarli persino alla pena di morte.

Chi ha conosciuto i due presunti gangster, racconta che le loro sale da gioco in cui si buttano via migliaia di yuan al baccarat sono note a tutti in città. “Sono così potenti che la polizia non li ha toccati per tanto tempo”. E chi li ha visti, paragona Hammerhead a Tony Soprano, mentre Spicy Qin ricorderebbe Micheal Corleone del “Padrino”. Tra i due ci sarebbe un’affinità non solo cinematografica ma soprattutto di interessi e affari che hanno toccato anche la politica.

Lin Guoqin ha fatto parte del Congresso Municipale del Popolo di Yangjiang durante gli anni ’90, quando – secondo gli investigatori – si era già lanciato nel business illegale. Poi ha presieduto la locale Federazione dell’Industria e del Commercio e dal 2000 al 2007 ha seduto al Comitato Nazionale della Conferenza Consultiva Politica del Popolo Cinese (Cppcc), il massimo organismo di consulenza politica del paese.

Le cronache ricordano Spicy Qin per le numerose sponsorizzazioni ed eventi pubblici ai quali ha partecipato. Tra questi, anche l’annuale donazione da quasi 30mila dollari in favore di studenti bisognosi, e l’alleanza con Xu Jianqiang, stretta – a quanto pare – per corredare di un esercito di killer e aguzzini il proprio impero economico.

domenica 24 maggio 2009

O' Cinese in manette

Alla fine, per Song Zichai, sono scattate le manette. L’accusa: truffa ed estorsione ai danni di 150 commercianti cinesi attirati dal sogno (poi diventato incubo) di un faraonico centro commerciale a Muggiò, in un ex cinema, a due passi da Milano.

Il mancese (noto anche come Song Zhicai o Song Jiang) è stato arrestato a Napoli, dove anni fa ha allestito il Cinamercato più famoso d’Italia. E dove si è fatto notare per una serie di spericolate operazioni finanziarie. Da quelle parti lo chiamano O’ Cinese. E lo trattano con rispetto. In Brianza, invece, i suoi connazionali volevano fargli la pelle, perché l’ipermercato era senza autorizzazioni ed è stato chiuso. E adesso, qualcuno di loro racconta che Song affittava gli stand (fino a 60 mila euro), e chi non pagava riceveva pesanti minacce.

Ancora da accertare, invece, i presunti contatti di Zichai con la ‘Ndrangheta. Intanto, sono stati arrestati per bancarotta fraudolenta tre amministratori della Tornado Gest, la società che aveva realizzato il cinema poi riempito di negozi made in China e che nel 2007 è sprofondata in un buco di 50 milioni di euro.

Guerra tra gang, killer in Olanda

L’ultimo l’hanno preso nei Paesi Bassi, a mille chilometri di distanza dal luogo dell’assalto. Il decimo componente della gang cinese che il 24 febbraio 2009 è piombato all’interno della discoteca Parenthesis di Milano per regolare i conti con una banda rivale è stato arrestato il 19 maggio.

La polizia olandese l’ha trovato in compagnia di un coltello e di un bel po’ di droga. E secondo gli inquirenti sarebbe stato lui a sferrare la pugnalata che ha ucciso Hu Libin, il 22enne morto nell’assalto causato, probabilmente, da dissidi sulla gestione dello spaccio della ketamina.

Gli altri nove del commando nei mesi precedenti erano stati presi tra Milano, Albenga e Alba Adriatica. Ma la cattura del presunto assassino in Olanda è la conferma della formidabile rete di amicizie e coperture che il crimine asiatico è riuscita a tessere.

Non è raro, infatti, che i boss cinesi assoldino killer connazionali fuori dai confini italiani o, comunque, lontano dalle città dove l’esecuzione deve avvenire. Esistono stretti collegamenti tra famiglie malavitose che vivono a Roma o a Milano con altre che si trovano a Parigi o ad Amsterdam. Le frontiere, per la mafia asiatica, sono solo dei segni di matita tracciati su un foglio di carta.

mercoledì 1 aprile 2009

Lucciole di Spagna

Mangiano e dormono nello stesso appartamento dove sono costrette a prostituirsi, così sono disponibili ventiquattro ore su ventiquattro per i clienti. Massima flessibilità e dedizione al lavoro. I ritmi sono quelli da schiavitù alla quale ci ha abituato la mafia d’Oriente. E così nei circa sessanta casini gestiti dai boss della chinatown di Barcellona, si applicano anche tariffe differenziate: se la ragazza dagli occhi a mandorla finisce tra le mani di uno spagnolo si pagano cinquanta euro; al connazionale, invece, si fa lo sconto.

La polizia catalana calcola che sono circa trecento le donne cinesi sfruttate a Barcellona. E secondo il quotidiano El Periodico, i locali a luci rosse gestiti dalla mala asiatica sono concentrati soprattutto nel quartiere dell’Eixample, per non parlare dei “centri massaggi” spesso inclini a prestazioni supplementari e alle case d’appuntamento riservate agli immigrati cinesi.

Un sistema difficile da smantellare perché le persone che mettono gli annunci per i clienti, quelle che affittano i locali e le “madame” che mandano avanti i bordelli non sono mai le stesse persone. Ma quello che inquieta di più gli investigatori è che dietro alla prostituzione c’è un’organizzazione ben strutturata. Che, ovviamente, non si limita al giro di squillo.

Le forze dell’ordine hanno individuato tre grandi famiglie che operano anche nel campo delle estorsioni, della contraffazione e dell’usura. Ma, soprattutto, nel traffico di essere umani. Migliaia di euro pagati ai clan per arrivare in Spagna e poi, una volta giunti a destinazione, trovare un lavoro. Una rete illegale che spesso nasconde scenari da riduzione in schiavitù che in qualche caso ha coinvolto anche cittadini spagnoli. Come nel caso di un imprenditore di Girona che ha impiegato uomini e donne cinesi nella sua azienda per più di due mesi. La paga? Quaranta euro per dodici ore di lavoro al giorno.

venerdì 27 marzo 2009

Sarpi rosso sangue

Torna a scorrere sangue cinese per le vie di Milano. A un mese dall'agguato a colpi di mannaia nella discoteca Parenthesis, sono tornate a sibilare le lame. Davanti alla trattoria "Long Chang", nel cuore della chinatown più grande d'Italia, il corpo di un uomo di 34 anni. Sul marciapiede di via Paolo Sarpi, il cadavere con la gola squarciata da una coltellata. Poco lontano una scarpa da donna. Un dettaglio che, secondo, gli investigatori potrebbe ricondurre l'omicidio a una questione d'onore per motivi passionali.

Poco prima, secondo alcune testimonianze, un cinese era entrato nel ristorante aggredendo due connazionali. Uno - come detto - è morto; l'altro è stato ferito in maniera grave. Quest'ultimo sarebbe l'ex fidanzato di una delle due donne che si trovavano a tavola con le vittime.

Difficile comunque dire se ci troviamo di fronte a una cavelleria rusticana cinese o all'ultima puntata della guerra fra gang. O, ancora, se si tratta di una regolamento di conti, magari per un debito non saldato o una tangente non versata. E' certo, comunque, che se questo delitto è da ricollegare a un eccesso di gelosia, qualcosa si è rotto a chinatown.

Dissidi di questo tipo, in genere, vengono risolti attraverso la mediazione e la trattativa. Una donna che mette l'uno contro l'altro due cinesi spesso può essere una questione da risolvere con una semplice somma di denaro. Turbare la quiete della comunità asiatica con il sangue è una soluzione estrema che solo un boss può autorizzare.
Guarda il video di C6TV

mercoledì 25 febbraio 2009

Il testimone

Come avevamo intuito (ma ci voleva poco), l’assassino di Hu Libin avvenuto il 24 febbraio nella discoteca Parenthesis di Milano con furibondo roteare di mannaie, è legato alla guerra tra bande cinesi che si sta consumando nel capoluogo lombardo. La vittima dell’assalto era infatti un elemento di rilievo della gang “Yu Hu”, ovvero il gruppo delle “cinture rosse”, in lotta da anni con i rivali di “Daxue” e le cui “gesta” sono raccontate in I Boss di Chinatown.

Omicidi, accoltellamenti e intimidazioni fanno parte del codice d’onore di questi giovani gangster, spesso storditi e allucinati dalla ketamina, una droga che consumano e spacciano. E forse proprio il traffico di stupefacenti potrebbe essere il motivo dell’ultimo scontro. Ma non è escluso che si sia trattato di una vendetta. D’altra parte per Hu Libin non era la prima volta che si ritrovava nel mezzo di una rissa degna di un film di Quentin Tarantino: nel 2003 aveva assistito all’accoltellamento di un compare della stessa banda, poi finito ammazzato a pistolettate nel 2007. E anche quella volta Hu c’era.

martedì 24 febbraio 2009

La legge delle cinture rosse

Milano, discoteca Parenthesis, 24 febbraio 2009. All’interno una festa di compleanno. Una cinquantina di ragazzi, tutti cinesi. All’1 e 30 nessuno fa caso che dieci giovanotti con gli occhi a mandorla sono entrati una alla volta. All’improvviso s’infilano i cappucci, tirano fuori mannaie e pugnali e si lanciano urlando verso un gruppo di connazionali.
Come delle furie sferrano fendenti alla testa, al tronco e alle gambe. Hu Libin, di 22 anni, muore in un lago di sangue. Altri cinque rimangono feriti con profondi squarci su tutto il corpo.

E’ la legge dei gangster in erba di Chinatown. All’estero, come in Italia, bande di ventenni regolano a colpi di lama (o a suon di proiettili) i loro affari: estorsioni, droga, controllo del territorio. Spesso sono la manodopera utilizzata dai boss per esercitare il loro potere intimidatorio. Si tratta di gang composte da giovanissimi, spesso minori di 18 anni. Ogni affiliato alla banda ha legami di origine geografica, cioè dalla città di nascita, con gli altri componenti. E ciascun gruppo quasi sempre ha un segno distintivo: un tatuaggio, un ciuffo dei capelli colorato o una cintura rossa. Un’identità interna molto forte che conduce a faide e scontri violenti.

Ma non è soltanto una questione tra ragazzini: «A capo di ciascun gruppo – fa sapere la Direzione nazionale antimafia – vi è un adulto, che coordina la loro azione e che tiene i collegamenti con bande di altre regioni». E «nei momenti di crisi di una gang (per esempio a seguito di arresti) confluiscono in ausilio elementi di altri gruppi provenienti da altre città. I collegamenti sul territorio nazionale sono dunque molto forti – spiega ancora la relazione della Dna – e questo, unitamente al fatto che sono bande che si spostano continuamente e anche i singoli componenti non hanno fissa dimora pur risiedendo presso i genitori, e che sono soliti scambiarsi telefoni cellulari e schede, rende le indagini estremamente problematiche».


Il volo di Re Anatra


Anche la mafia cinese ha i suoi padrini. Uomini d’onore che per fama, potere e crudeltà nulla hanno da invidiare a Totò Riina e Bernardo Provenzano. Anzi. Seduti ai vertici di organizzazioni criminali che attraversano gli oceani, i boss delle Triadi possono vantare legami preferenziali con la politica e i servizi segreti, nonché contare su sterminate folle di fedelissimi seguaci. Non si spiegherebbe altrimenti come mai circa tremila persone il 7 novembre del 2007 sono accorse a Taipei per rendere l’ultimo omaggio a Chen Chi-Li, numero uno della Bamboo United, la setta mafiosa più potente di Taiwan.

Così come al funerale del mafioso italo-americano John Gotti le strade di New York s’affollarano per il baciamano del trapasso, allo stesso modo la capitale della Repubblica cinese s’è riempita di devoti ammiratori di colui il quale in vita era riverito come “Re Anatra”. Un appellativo che non deve intenerire: Chen Chi-Li non solo è stato il capo di una delle più potenti Triadi internazionali per quasi quarant’anni, ma è stato additato come l’indizio più evidente del connubio tra la mafia asiatica e il Kuomintang, il partito nazionalista che governa in maniera dittatoriale Taiwan.

L’ingresso di Re Anatra nelle fila del gangsterismo inizia presto. A quattordici anni Chen Chi-Li entra in una banda ma questo non gli impedisce di studiare e di laurearsi in ingegneria. La sua vita scorre su binari paralleli: ai vertici della malavita e nei posti di comando della società legale. Serve l’esercito come tenente, poi nell’aprile del 1968 assume il comando della gang più potente di Taiwan, quindi fonda la Cheng Enterprise. In appena tre anni accumula denari su denari e allarga il suo business all’acciaio, locali notturni, editoria ed edilizia.

Re Anatra è un signore di successo ma sarebbe rimasto soltanto un temibile e rispettato uomo d’onore d'Oriente se non si fosse occupato di Henry Liu. Chi è Liu? È un giornalista e scrittore cinese con cittadinanza americana che ha pubblicato una biografia critica sul conto di Chiang Ching-Kuo, il presidente di Taiwan. Il 14 agosto 1984 il reporter viene trovato morto ammazzato nella sua casa in California e Chen Chi-Li presto finisce nell’elenco dei sospettati. Il gangster confermerà durante il processo il suo coinvolgimento nell’omicidio, spiegando che proprio il governo di Taipei gli avrebbe offerto 20.000 dollari per far fuori Henry Liu ma che lui avrebbe rifiutato per il suo amor patrio. Uccidere il giornalista dissidente, infatti, sarebbe stata una ricompensa gratificante per mettere a tacere una spia.

Re Anatra racconta che Henry Liu era un agente al soldo di Pechino, ovvero della Cina Popolare che da sempre tenta di ostacolare l’indipendenza taiwanese. Il boss aggiunge che un vice-ammiraglio e il capo della marina di Taiwan gli avevano chiesto di assassinare Herny Liu in quanto non più affidabile: il giornalista sarebbe stato un loro agente che faceva il doppio gioco per conto dei comunisti cinesi.

Difficile dire quanto siano veritiere le parole del padrino della Bamboo United. Quel che è certo è che Chen Chi-Li viene condannato e rimesso in libertà dopo pochi anni. In patria viene osannato come un eroe nazionale ma dopo un po’ decide di andare a vivere in Cambogia, dove abita in una villa di quasi tremila metri quadrati con un giardino in cui sono parcheggiati alcuni cannoni che dice di tenere per difesa personale.

Durante gli anni ’90 dichiara di voler trasformare la sua organizzazione in un’impresa legale e così si attira l’ammirazione del gotha politico di Taiwan, che non manca di onorare le esequie di Re Anatra. Fra i tremila partecipanti ai funerali si scorgono alcuni tra i leader dei partiti di governo e opposizione di Taiwan. Gli occhiali scuri non li difendono dagli obiettivi dei fotografi, mentre la polizia tra la folla individua una dozzina di ragazzotti appesantiti da pistole e lunghi coltelli.