venerdì 18 luglio 2008

Testa bianca, testa nera: i cinesi d'Italia

«Tutti i gruppi hanno testa bianca e nera», dice Zhang, un pentito della mafia cinese ai magistrati negli anni ’90. Con la prima s’intendono le attività lecite e con la seconda quelle criminali. In pratica ogni clan è impegnato allo stesso tempo in affari puliti e sporchi («cose nere»), così per esempio «Zhou Yi Ping come testa bianca era titolare di un ristorante a Roma e, soprattutto, svolgeva il ruolo di presidente della comunità cinese di quella città, in modo tale da controllare sia attività normali e anche attività mafiose». [da I Boss di Chinatown – La mafia cinese in Italia (Giampiero Rossi e Simone Spina – Melampo Editore)]


Nel porto di Napoli a far concorrenza alla China Shipping è la Cosco. I contanier dei due armatori cinesi sono affastellati sulle banchine e hanno cambiato il panorama del principale approdo del made in China in Europa.
Il 70 per cento di tutta la merce cinese diretta nel nostro paese arriva qui: un flusso di 250.000 container all’anno ai piedi del Vesuvio. E non è un caso che in Campania siano nate in pochi anni 1500 imprese con le lanterne rosse.
Non c’è angolo della penisola dove non s’incontri un’insegna ricamata di ideogrammi. Basta fare un giro nel quartiere Esquilino di Roma, dove su 500 botteghe 403 sono cinesi, o nei dintorni di via Paolo Sarpi a Milano, dove ci sono 1900 ditte cinesi che fatturano 560 milioni di euro all’anno, o – ancora - nella provincia di Prato, dove su una popolazione di 185.000 abitanti ci sono 2500 imprese asiatiche, molte delle quali riforniscono di prodotti tessili le griffe internazionali.

In totale sono quasi 30mila le imprese che parlano mandarino nel nostro paese. Un dato sorprendente, se si considera che i cinesi d’Italia – secondo l’Istat – sono soltanto 130 mila.
Un dato che spiega bene l’innata propensione di questo popolo per il business. Nel solo 2007 sono state quasi 7mila (6.929) le nuove imprese fondate da cinesi e, accanto ai piccoli imprenditori, avanzano i colossi. Il primo produttore di motociclette cinese, la Qianjiang Group, tre anni fa ha comprato lo storico marchio delle due ruote Benelli; mentre più di recente la Sergio Tacchini è passata nelle mani della Hembley di Hong Kong.

Nel 2006 gli investimenti cinesi in Italia sono stati 61,47 milioni di dollari e nel settore immobiliare il ritmo di crescita è del 2-3% all’anno. I quattrini, comunque, prendono soprattutto la strada dell’Asia: nel 2006 sono partiti dal nostro paese 700,5 milioni di euro, solo la comunità romena ha spedito in patria una quantità superiore di rimesse (772).

Ma in questa formidabile rete imprenditoriale, come spesso accade, purtroppo c’è anche la mano della criminalità. Clan di mafiosi dagli occhi a mandorla riscuotono il pizzo ai danni dei commercianti connazionali, mentre fioriscono banche clandestine dove il denaro sporco, frutto soprattutto della contraffazione e dell’immigrazione clandestina, è ripulito e pronto per nuovi investimenti. C’è una cifra a sei zeri che spiega bene l’avanzata di questo impero economico illegale e a fornirlo è la Direzione investigativa antimafia, che nel primo semestre del 2007 ha sequestrato alla mafia cinese beni per 20 milioni di euro: solo Cosa nostra ha subito un taglio dei profitti di uguale misura.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

ma dove li trovano i soldi per aprire tutti quei negozi. E perché poi dentro non c'è mai nessuno che compra qualcosa? C'è del marcio....

Anonimo ha detto...

sE NON COMPRASSE NESSUNO NON AVREBBERO TUTTI QUEI SOLDI . I CINESI , I SOLDI , SE LI SONO GUADAGNATI CON SANGUE E SUDORE , MICA LAVORANDO 6 ORE ALGIORNO IN UFFICIO CON L'ARIA CONDIZIONATA E LO STIPENDIO MENSILE ! I CINESI MICA SE NE VANNO IN VACANZA D'ESTATE , I CINESI RINUNCIANO A TROPPE COSE PER FARE SOLDI E POI DICONO CHE SONO MAFIOSI . QUA I VERI MAFIOSI SONO QUELLI CHE DICONO CAZZATE !